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IL RUOLO DELLE NOSTRE DIFESE
QUELLE DIFESE CHE FUNZIONANO, quando ne abbiamo bisogno. Per lasciarci quando ce la facciamo da soli
Quella distanza emotiva che scatta subito, automaticamente, quando avverti il pericolo, di crollare, quando il tuo corpo, il tuo cuore e la tua mente sentono che è troppo, troppo forte quella sensazione, quell’emozione, che è spavento, che è paura, che è angoscia, e panico.
Allora quella distanza emotiva arriva a soccorrerti, a salvarti, a proteggerti da un crollo che senti imminente, quando ti senti invaso da un carico troppo forte di emozione, eccola, quella distanza, ecco quella ferrea razionalità che viene in aiuto, quel congelamento emotivo che serve a non sentire, a pensare sì, a parlare anche, e a ragionare, ma non a sentire, perché non reggeresti, quel sentire, così. Ecco a cosa serve, e perché funziona, quel distacco emotivo che gli altri vedono e che tu metti in atto, senza saperlo, perché ti viene così, da dentro. E le emozioni possono riaffiorare di nuovo quando sono ad un livello più possibile di tollerabilità, non prima. Le difese funzionano quando irrompono laddove da solo non ce la fai a gestire l’emotività, e si ritirano lasciando riaffiorare quelle sensazioni quando sei in grado di sostenerle, di sentirle appunto, di viverle senza che siano angosciose e angoscianti, senza che siano così forti da non poter essere vissute senza un crollo emotivo, psichico. Ecco cosa accade sotto la superficie, ecco cosa accade dietro quella freddezza visibile, o quel sorriso gelido e quel fare impostato in momenti di dramma, ecco cosa c’è sotto, cosa lavora sul fondo, nel cuore. Se si scopre la maschera, se si va a fondo, c’è un turbamento talmente forte e grave che non ha contenimento, se viene a galla. L’unico modo per controllarlo, per controllarsi, per stare in piedi è non sentire. Dirsi che non si sta sentendo, non si sta toccando quell’emozione, e non toccarla. Bloccarla lì, congelarla, toglierle il colore e il sapore, e la forza e l’energia, toglierle vita. Così solo è pensabile e sostenibile. Non darle voce e spazio, così non c’è, e io sto bene e vivo, e sopravvivo. E’ solo la mia potente vulnerabilità che c’è, sotto quel distacco che tu vedi, sotto quella forma così austera, distante, gelida, inattaccabile e intoccabile, che è tutto, in verità, fuorchè invulnerabilità.
IL LAVORO PSICOTERAPEUTICO intraprende quella strada, si spinge in profondità ma con cautela, asseconda le difese della persona finchè sono sopravvivenziali, finchè rappresentano uno strumento di equilibrio e stabilità indispensabile per il soggetto; lavora per trovarle, comprenderle, riconoscerle, e identificarle, definirle, accettarle, affiancarle ad altre modalità che permettono di sentire di più congelando meno, ma che si inseriscono solo quando la persona può lasciare le sue forti difese senza crollare, può abbandonarle senza angoscia; quando le emozioni sono allora sostenibili, grazie al lavoro terapeutico per cui insieme si parla e si dà voce a quelle emozioni così potenti, intense e pericolose, affinchè siano meno spaventanti e angoscianti, in un luogo in cui sono contenute, in cui non possono fare male, la stanza terapeutica, in cui in due si possono vedere e sentire. Questo è possibile solo quando si saranno trovate, nel corso della terapia, risorse nuove con cui farvi fronte, nuova consapevolezza, una solidità maggiore, si è più forti e più pronti e più capaci emotivamente per reggere ciò che prima era pericoloso e quindi inaccessibile, al cuore e alla mente.
![violenza sulle donne](https://static.wixstatic.com/media/90a441_ebe8720598ce4017947f2649ccdf181c~mv2.jpg/v1/fill/w_300,h_198,al_c,q_80,usm_0.66_1.00_0.01,enc_avif,quality_auto/90a441_ebe8720598ce4017947f2649ccdf181c~mv2.jpg)
Uno ogni 3 giorni. In Italia sono questi i numeri del femminicidio.
Il 25 novembre è la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. “Un’emergenza che si può fermare e prevenire, educando i bambini, con le parole e con i nostri comportamenti, partendo dalla famiglia”.
Iniziano da qui, dall’educazione, Mario Venerandi, psicoterapeuta sistemico relazionale al Centro Medico Santagostino e Anna Vailati, psicologa e psicoterapeuta presso Il Centro Medico Monterosa e fondatrice di Cerchi e Spazi.
Due esperti, uomo e donna, cui abbiamo chiesto qual è il momento giusto per affrontare il tema femminicidio con i nostri figli.
VIOLENZA SULLE DONNE: COME SI PUO’ EDUCARE FIN DA PICCOLI
Mario Venerandi: “Per prevenire, dimostra cosa vuol dire cooperazione, a partire da casa, tra mamma e papà”
- Si alla fragilità È fondamentale educare i bambini da subito all’accettazione della fragilità, insegnare loro a mettersi nei panni dell’altro e a capire cosa sta succedendo all’altro…
- Contano i gesti. Più del 90% della comunicazione che facciamo è non verbale. Non basta raccontare la non violenza ma è fondamentale anche fare. In casa, nell’educazione, stiamo dimenticando la cooperazione e per cooperare devi dare valore all’altro. Questi processi sono quelli che evitano la violenza. Quando i genitori si sentono corresponsabili e fanno capire ai figli che l’importanza di mamma e papà è uguale, tutto ha una valenza diversa…
Anna Vailati: “Prevenire significa educare alle emozioni, alla differenza, all’accettazione dei limiti, non significa fare lezioni”
- Educali alla cultura delle emozioni. La cultura del “bisogna essere sempre sorridenti, buoni e felici…” non aiuta. Se io punisco reprimo e ignoro la rabbia, la tristezza e l’aggressività, che sono emozioni sane e fisiologiche, faccio esplodere i coperchi. Se fin da bambini si impara invece a vedere riconosciute e legittimate le proprie emozioni (quelle negative soprattutto), si imparano a verbalizzare e quindi a gestire, evitando gesti impulsivi
- Insegna l’empatia. Per instaurare relazioni non ego-centrate e possessive bisogna aver imparato a gestire e vivere le proprie emozioni. Poi si è capaci di essere empatici
- Sì all’accettazione dei limiti. E' importante riconoscere e accettare alcuni limiti e confini, non tutto mi è possibile e dovuto. Ci sono io e c'è l'altro. Il bambino cresce in un contesto (scuola, amici, famiglia) con altre persone, quindi con dei limiti. I genitori che si rendono conto dell’esistenza di una comunità (in classe c’è una maestra per 25 bambini, non posso pretendere tutte le attenzioni per mio figlio), lo insegna ai figli
- Le differenze hanno un grande valore. No alle schematizzazioni, all’incasellare. Oggi si tende a negare sempre più le differenze, stiamo standardizzando tutto e invece i bambini devono imparare a cogliere le differenze, come ricchezze.
- Si può dire “io non ce la faccio”. In una società performante, da bambino appena fai fatica sei ghettizzato. Fin da piccoli pensano di non poter dire “non riesco” e questo impedisce di chiedere aiuto, un supporto psicologico quando occorre, per vergogna. Invece il saper domandare supporto va accettato e incentivato
FEMMINICIDIO: COME PARLARNE A BAMBINI E RAGAZZI
Mario Venerandi: “Violenza vuol dire togliere libertà, parti da qui”
- No alla causa-effetto. È molto importante fare e dare ai ragazzi una lettura relazionale di quanto succede. La violenza è qualcosa costruito nel tempo, che arriva al culmine ma non finisce con l’atto, i suoi effetti continuano. I bambini capiscono molto bene quanto è importante la relazione. Capiscono che se esercitano violenza anche loro la possono subire.
- Visione ampia. Parlare di femminicidio significa parlare di violenza in generale. Se si affronta il tema con i bambini parti da cosa vuol dire togliere la libertà, superare i limiti…Tratta la violenza come una questione unica, aldilà di chi sia la vittima.
Anna Vailati: “Niente prediche, ascolta tuo figlio e scegli il canale di comunicazione giusto”
- Sintonizzati su tuo figlio. È una tua necessità o è davvero un argomento che tuo figlio sente di voler affrontare? C’è chi non ha neanche percepito o non ha interesse né preoccupazione per questo fenomeno, quindi basta restare su un livello di superficie C’è chi invece è preoccupato e spaventato e quindi ha bisogno di più spiegazioni e confronto.
- Scegli il piano di comunicazione giusto. Ci sono due canali per parlarne: quello razionale (ti do informazioni, ti racconto, mi racconti, ti spiego), quello emozionale (capisco la tua preoccupazione e ti rassicuro). Ascolta tuo figlio e capisci su quale canale serve focalizzarsi maggiormente.
- Nessuna lezione in cattedra. Lascia aperto un canale a due vie. “Parliamone, io e te. Non io ti spiego e tu mi ascolti”. Siete in due al tavolo
![la strada](https://static.wixstatic.com/media/90a441_37e071e7fbd0400da2d6b65220b0d9f2~mv2.jpg/v1/fill/w_300,h_199,al_c,q_80,usm_0.66_1.00_0.01,enc_avif,quality_auto/90a441_37e071e7fbd0400da2d6b65220b0d9f2~mv2.jpg)
A proposito di...
- ACCETTAZIONE del LIMITE, dei limiti dati da una malattia e da condizioni che si impongo nella vita, fonte di sofferenze difficilmente accettabili, appunto.
- RESILIENZA, che arriva dopo.
Lettera LA STRADA PREPARATORIA
“…come accettare quegli eventi che nascono e si presentano loro stessi come inaccettabili? Quegli eventi che sembrano spingere oltre i limiti umani, oltre le possibilità di affrontarli? Perché ci si prova e si tiene, si sostiene e si affronta e si vive ma poi si ha bisogno di mollare almeno un attimo e di dirsi che quel limite non ce la si fa più a viverlo, non è più accettabile, quella sofferenza e quella fatica sono troppo grandi e vincono. Vincono loro.
Schiacciano invadono, affossano.
Quelle sofferenze, quei limiti che la vita impone, con crudeltà e prepotenza, che mettono con le spalle al muro, che inchiodano, quei limiti di malattie più grandi di te, quei limiti che evocano dimensioni esistenziali, dell’esistenza, cioè della morte. Lì è dura, lì o neghi e sopravvivi, ti volti dall’altra parte, ti distogli, ti distacchi, ti nascondi, o è dura. Nasce e spinge il bisogno di dimenticare, tutto, almeno per qualche attimo. Ritornare alla vita, per qualche attimo. Negare per sopravvivere ancora un attimo. Prima di essere ancora risucchiati. Sabbie mobili che avvolgono e immobilizzano e soffocano e si annega, si affoga, di nuovo. Si è svegli e si vede cosa accade ma non si può fare nulla.
A volte, per un po’, ce la fai e tieni, e reggi, ma solo perché non puoi scappare, non puoi tirarti indietro. Ma appena puoi l’istinto, quello di vita, della tua vita, si fa sentire ma perde, non ce la fa, non si anima. Vince lui, quel peso, quello che ti trascina giù negli abissi neri, nell’impossibilità di un respiro libero e ti costringe lì, a soffocare. C’è un barlume di istinto di vita rimasto, in chi accompagna e assiste l’altro, che è l’amato, l'ammalato, il responsabile, in fondo, di tanta sofferenza maledetta. E senti allora anche la fatica e la disperazione dell’altro che sa, lo sa di essere il responsabile per tutti. Perchè ha portato il dolore nella vita, nella vita di tutti. C’è un carico di sofferenza diretta ma anche indiretta, l’altro sa che non ti lascia più libero di vivere. Forse lo sa. O speriamo di no.
Perché tanto nessuno esce da questa gabbia di inferno, di assoluta impotenza, di devastante limite che ti inchioda, non ne puoi uscire, non c’è e non ci sarà un margine che si apre, non c’è, quella è la condizione.
Hai voglia a dire accettazione del limite, della malattia. Hai voglia a dire resilienza. Finchè sei nella gabbia no, e come è, forse dopo, dopo che è successo, dopo che LI’ si è arrivati, forse lì tutto sommato, forse lì si può rinascere, senza un pezzo ma forse si respira di più, comunque. Mancano pezzi. Ma è finita.
Perché nel tunnel non c’è fine quando ci sei dentro e se non vedi la fine e sai che c’è e sei lì è anche peggio perché è una fine che ti separerà, dall’altro, che è perdere, perdere un pezzo. Da lì passare quindi, l’obiettivo è questa fine, quando sei nel tunnel e non sai allora se è peggio arrivarci, lì, in fondo, o non arrivare ancora.
Ma forse è talmente grande lo strazio di starci dentro che sembrerà meno straziante, la fine. Forse a questo serve, questa strada, questo pezzo di vita, è una strada preparatoria, di sofferenza preparatoria per affrontare la fine partendo dal basso, dagli inferi, e sembrerà meno spaventosa, e sarà meno spaventevole ciò che succederà dopo. “
In questa condizione di grande e profonda sofferenza, di fatica quasi alla sopravvivenza, in questi sentimenti di impotenza, frustrazione, rabbia e mancanza di un senso vitale del sé si inserisce il sostegno terapeutico, che lavora accogliendo e contenendo questi vissuti e accompagnando la persona a ritrovare quelle risorse che sembrano perse ma che perse non sono. Il lavoro terapeutico ha l'obiettivo di recuperare aspetti di resilienza utili a ricostruirsi, riemergere e riprendere la propria vitalità, ristrutturando se stessi in un nuovo equilibrio, in un diverso ma funzionale assetto emotivo. qui per modificare il testo
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MODELLARE I SOGNI SU UNA REALTA’ POSSIBILE
Per evitare prevedibili frustrazioni occorre sognare ciò che è possibile fare e costruire i sogni sulla nostra realtà.
Sì, perché quando ci si ostina a sognare qualcosa di ben poco possibile, a negare gli aspetti di vincolo e di limite della nostra realtà, a non accettare né adattarsi a un cambiamento avvenuto nella nostra quotidianità…ecco che i sogni, più che aiutarci a perseguire una dimensione migliore, più serena e felice, sono proprio la causa di una grande sofferenza, di uno stato di irritazione e di irrequietezza, di insoddisfazione, e financo di crisi.
Per poter immaginare un diverso assetto, che mantenga però un link realistico con il nostro status quo, il primo movimento da compiere è allora quello di analizzare e valutare la nostra realtà, comprenderla e accettarla; il secondo è volto a coglierne le potenzialità evolutive ancora non utilizzate, ma presenti, gli aspetti migliorativi ancora non sfruttati ma esistenti. Solo da qui costruire il sogno, e solo così le nostre spinte interne, le speranze e le fantasie che ci motivano verso il nuovo, che ci riempiono di energia ed entusiasmo, non rimarranno deluse e saranno fonte di effettivo arricchimento e soddisfazione.
E’ quando immaginiamo uno stato che prende la forma di un sogno irrealistico, eccessivamente lontano e distante dalla realtà e dalle potenzialità di chi siamo e dove siamo che si rischia di scivolare in uno stato di grande frustrazione, che genera facilmente conflitti interni ed esterni, relazionali spesso.
Curiosità, entusiasmo, ambizione che inneschino un movimento a perseguire ciò che possiamo già sfiorare, che con un piccolo sforzo possiamo afferrare, stringere e conquistare. Un salto possibile, dove la motivazione sia sostenuta dalle risorse proprie e del contesto, per giungere ad un esito positivo, evitando un prevedibile FLOP!
Ciò è ancor più vero quando la persona, anzi la coppia, diventa un trio o un quartetto, perché nascono uno o due figli. Cambia l’assetto, cambia la quotidianità, cambiano i sogni possibili, o le modalità o i tempi con cui è possibile raggiungerli; si modificano gli orizzonti. Quando non si riesce a fare un passaggio e un movimento adattativo sul nuovo assetto e ci si ostina a pensarsi in un equilibrio a due e di due…allora non si fanno i conti con la realtà e ahimè le conseguenze non sono per nulla piacevoli! La coppia spesso si trova a faticare in questa fase del processo, perché la libertà di due adulti difficilmente rimane immodificata dalla presenza dei nuovi entrati, che, come natura vuole, richiedono attenzioni e accortezze che vanno considerate, e non invece negate! In alcuni casi questo momento è vissuto come una frustrazione forte, una repressione di alcune spinte interne.
La giovane coppia alle prese con il nuovo nato deve dimostrare questa capacità di adattamento e assestamento per la prima volta, la coppia più matura, al secondo figlio, deve invece proseguire il lavoro, già iniziato con il primogenito, di ridimensionamento e riadattamento "a misura di bambino" di aspettative proprie e di coppia, dimostrando quindi anche una capacità di "tenuta" nel tempo. La tenuta, quando ben gestita e serenamente vissuta, può generare un processo di trasformazione, il cui esito è un equilibrio certamente diverso dal precedente ma ugualmente sereno e funzionante, sui tre fronti, personale, coniugale, genitoriale. La famiglia trova la sua dimensione.
Rincorrere insistentemente sogni di uno stato passato, certamente diverso dallo stato presente, non fa altro quindi che generare frustrazioni; saper produrre nuovi sogni, generati dalle nuove ed effettive condizioni, creare e immaginare nuove realtà possibili, migliori certamente, ma possibili, è un atteggiamento che allontana la delusione e favorisce la soddisfazione e la realizzazione di quanto desiderato.
Accettare ciò che c'è fa andare avanti, contrastarlo tiene fermi.
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RESILIENZA richiede FLESSIBILITA’
Quella RESILIENZA tanto cercata, cui si tende come risorsa strumento di sopravvivenza, anzi di buona vita o nuova vita spesso dopo esperienze emotivamente impattanti - quando non traumatiche - richiede alla base una fondamentale, indispensabile, capacità adattiva: la FLESSIBILITA'.
Questa a sua volta richiede, tra le altre, alcune competenze specifiche, prima tra tutte saper ascoltare, osservare, comprendere il contesto; solo da qui è possibile poi riuscire ad assestarsi adeguatamente su di esso. Cogliere le caratteristiche di dove siamo, del nostro interlocutore, sentire la qualità affettiva della relazione, i colori, l’intensità del clima che si crea, comprendere i reciproci ruoli, individuare i confini, guardarsi attorno dunque e saper leggere con precisione e correttamente l’area in cui ci si trova sono presupposti di base per muoversi in piena consapevolezza e centratura.
L’individuo dopo aver colto e trovato le caratteristiche del contesto deve allo stesso modo trovare tra le proprie caratteristiche quelle che meglio fittano con esse, ovvero quelle risorse, competenze, capacità, abilità, qualità che piu funzionano lì dove siamo, e che hanno maggior probabilità di successo in quella precisa occasione e per quell’interlocutore cui ci stiamo rapportando.
Ciò significa avere e mantenere costante un assetto mentale, e comportamentale, di grande flessibilità in cui è possibile adattarsi man mano in modo massimamente funzionale e positivo alla realtà del momento. Perché ogni occasione richiede la messa in gioco di nostre differenti caratteristiche e competenze. Così facendo, in un costante riadattamento e movimento di assestamento, ci troviamo a modellare il nostro stile assumendo forme specifiche utili ad entrare in modo centrato nelle diverse situazioni, permettendo di essere armonici e fluidi rispetto al contesto, pur mantenendo invariato e solido il nostro nucleo identitario, la nostra originaria natura. Ciò serve per non restare schiacciati da quanto ci accade, per non ritrovarci incapaci o inermi, per non paralizzarci di fronte a eventi inaspettati, improvvisi e sfavorevoli. Un assetto di flessibilità consente piuttosto di reagire ad essi e riattivarci, rialzarci con in mano diversi strumenti e rinnovata energia, recuperare nel nostro bagaglio di risorse, nella famosa cassetta degli attrezzi di cui siamo dotati, competenze e qualità personali con cui fronteggiare il mondo. Conoscere dunque quali attrezzi abbiamo e saper usare via via quelli giusti, quelli che aprono porte e sbloccano ingranaggi, rappresenta un importante OBIETTIVO DEL LAVORO TERAPEUTICO.
Ecco dove può nascere e crescere la resiilenza allora, ecco uno dei mattoni su cui poggia e importanti per svilupparla, quella capacità di recuperare dentro di sé ciò che occorre in quel momento fuori di sè, di usare delle nostre abilità quelle che il contesto ci richiede, non altre, ma proprio quelle che meglio rispondono a ciò che, volenti o nolenti, quella situazione pretende da noi.
![magia e natale](https://static.wixstatic.com/media/90a441_dd0cdb918b334b7ab1c81962bf48e2b6~mv2.jpg/v1/fill/w_215,h_216,al_c,q_80,usm_0.66_1.00_0.01,enc_avif,quality_auto/90a441_dd0cdb918b334b7ab1c81962bf48e2b6~mv2.jpg)
A NATALE: LA MAGIA
A Natale si può regalare il senso della magia, dell’immaginazione, del desiderio, della curiosità e dell’esplorazione, spinte vitali che poco hanno in comune con ciò che accade oggi, a Natale. Il periodo pre-natalizio che culmina il 25 dicembre è, di questi tempi, lo sfondo su cui si asseconda e si favorisce, purtroppo, la tensione a chiedere, richiedere, desiderare oggetti, in quella che ormai è una “pratica inerziale“ - per usare un termine di Daniele Novara e che rende bene qualcosa che si fa perché così si fa, senza più intenzione e consapevolezza bensì come automatismo - ovvero quel processo per cui si chiede “dimmi cosa vuoi”, “scrivi l’elenco degli oggetti che desideri”, si continua con “compro i regali che hai chiesto e anche di più”, per finire nel “tu li scarti voracemente per accumulare tanti nuovi oggetti”. Questa concatenazione di scambi comunicativi e comportamentali va a soddisfare quel senso onnipotente del bambino che si innesta nel “ho avuto tutto ciò che volevo” che il genitore ha di fatto sollecitato e favorito - nonchè compensato - e che va a braccetto con “ti ho dato tutto ciò che volevi”, un pensiero che fa sentire il genitore buono, capace, adeguato.
Ecco, forse occorre ritornare a una dimensione mentale, immaginifica più che concreta, recuperare un alone di magia e segreto, di immaginazione di realtà altre, di storie e personaggi, di attese, di speranze e desideri che prendono forma, rinforzando nel bambino queste stesse dimensioni, che sono importanti, di cui ha bisogno, che fanno bene, che sono ricche di sogni e che rappresentano esperienze positive, utili ad una buona crescita………………………………………………………….
Il desiderio è vitale più della sua soddisfazione, e tanto più c’è magia e speranza e attesa dietro a quel desiderio più quel desiderio (uno solo o pochi veramente voluti, sentiti, pensati e richiesti) sarà fonte di gioia pura, di felicità, di scoperta e meraviglia.
SCOPERTA e MERAVIGLIA sono importanti sensazioni che i nostri figli dovrebbero riuscire a esplorare, sentire e vivere, perché quelle sì che fanno stare bene e fanno bene. E per arrivare a scoprire e meravigliarsi, la strada da percorrere prima è quella della magia e di un desiderio quasi un po’ segreto, che non è un volere oggetti, ma è raccontarsi e raccontare delle storie anche a partire da quell’oggetto ma che non si esauriscono nella sua concretezza, è il senso che quell’oggetto ha per il bambino, l’uso che ne può fare, che lui stesso si immagina, la realtà che si costruisce e che si crea attorno a quell’oggetto.
Non è il semplice “voglio quella cosa”, facciamo che non sia cosi. Se no si spengono una serie di capacità, competenze e caratteristiche dei bambini che sono invece quelle parti più vitali e positive che li caratterizzano e che non devono perdersi nella strada che li porta all’essere adulti.
E’ l’evento che stiamo aspettando, è la preparazione di un setting speciale, che avviene prima nella mente del genitore, perchè è da lì che passa e arriva ai bambini. Parte dalla nostra capacità di crederci, dal nostro stesso desiderio di fargli vivere una magia, e di viverla anche un po’ noi stessi, e non cadere nella concretezza arida di vita che è l’apertura dei regali che ha chiesto.
Così negli scambi tra noi adulti, spinti dai mille impegni quotidiani, dal dover fare, copriamo il Natale con una complusiva spinta ad acquistare pur di dare e di aver dato senza che dietro si creino significati, senza che ci sia un senso e un valore di ciò che vado a cercare per l’altro, di ciò che ho capito dall’altro, di ciò che ho colto nell’altro come desiderio o bisogno.
Natale non deve essere la festa dei regali, la giornata dei regali, che peraltro ormai è tutti i giorni, perché si compra e si regala a noi e agli altri e ai bimbi tutti i giorni, non c’è più un distinguo tra quotidianità e compleanno/Natale a sostenere il valore di un dono richiesto e ricevuto.
Natale è un giorno e un tempo speciale e magico ma lo è solo se noi riusciamo a viverlo così, e a trasmettere emotivamente loro e immettere nelle relazioni con i nostri figli quella FAVOLA che poi leggiamo loro sui libri la sera, e che tiene lontana e bandita la percezione che il 25 dicembre sia la giornata mondiale dei regali.